Nessuno sa dove sono


Nessuno sa dove sono, io stesso ne ho solo una vaga idea. Non ho neppure lasciato informazioni sul mio itinerario o sul tempo che avrei trascorso tra queste montagne aspre. Mancano una manciata di mezzore all’alba, ho le gambe che tremano, un vecchio fucile di fabbricazione russa puntato al viso, e Dio sa quanto vorrei essere solo il personaggio di un romanzo, di quelli che trovano sempre il modo di cavarsi d’impaccio. Quelli che alla peggio, se gli spari, sanguinano solo inchiostro su carta.

Non credo di essere uno sconsiderato: in genere mi comporto in maniera meticolosa, precisa, addirittura prevedibile; chi mi conosce ogni tanto si chiede se io viva sul serio o se mi limiti a funzionare secondo le regole della mia logica.

Forse è proprio per questo modo di essere che ogni tanto sento la necessità di deragliare. Allora ciao mondo, ci vediamo più tardi. Lego le scarpe ben strette, scelgo una direzione, corro. Non c’è nient’altro: io, il mio respiro, il cuore che va veloce e preciso, senza perdere un colpo. Corro senza traccia, senza orologio. Mi piace perché mi fa sentire pulito, idealista come una freccia: fedele ad una traiettoria e null’altro, puro da ogni forma di compromesso, di valutazione sul male minore, di sorriso a denti stretti davanti a qualcosa di orribile che tocca farsi piacere in vista di un utile distante.

Ieri ho individuato questa cresta, linea immaginaria tra il marmo bianco della montagna ed il lapislazzulo del cielo turco. Il cuore ha battuto più veloce, per un momento, mentre qualcuno mi chiedeva come mai sorridessi. «Nulla», ho risposto, mentre iniziavo a deragliare.

Esco alle tre di notte, in barba alla sorveglianza dei militari che garantiscono la mia sicurezza in quest’angolo di Turchia così vicino alla Siria. Deraglio dritto, veloce, con gli occhi che ridono e la luce della luna ad illuminare i miei passi.

La parola «Rawestan!» urlata più volte mi colpisce come una fucilata mentre scavalco un pietrone che potrebbe tranquillamente contenere il Laocoonte di Rodi. Ed eccoci, uno più spaventato dell’altro, due esseri umani separati dal kalashnikov di cui fisso la bocca.

«Girati e corri» dice una vocina nella mia testa. Invece mi siedo, alzando le mani. Lui continua a borbogliare in curdo, lingua di cui comprendo due o tre parole. Continuo a guardarlo negli occhi mentre tiro fuori dal marsupio acqua e frutta secca. Mi tocco il petto, dico il mio nome, dico che sono italiano. Sorrido ed offro quello che ho.

Aram sgrana i suoi occhi di diciannovenne, scuote la testa. Poggia l’arma e prepara chai per due. Ci salutiamo prima dell’alba, e almeno stanotte l’umanità ha vinto.