Uccidere Charles


1. Introduzione

Cercare “Charlie Gard” su Internet o leggere gli articoli a lui dedicati sulla stampa (non solo italiana) è, per un bioeticista, un’esperienza da brivido. Sia dalle colonne di quotidiani ideologicamente schierati che da quelle di testate use ad una maggiore sobrietà nel proporre una notizia al pubblico sembra emergere una identica verità: un tribunale inglese ha ordinato la morte di un bambino, e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha di fatto avallato una sentenza così scellerata.

Ohibò, viene da dirsi. Possibile che ci troviamo di fronte ad un fallimento così radicale della bioetica normativa? Possibile che, mentre eravamo distratti dalle questioni più disparate, qualcosa di moralmente ingiustificabile come l’omicidio imposto da un Tribunale sia strisciato fino al cuore della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali?

No, non è possibile, e se lo fosse, beh, forse sarebbe ora di cambiare mestiere. Ergo: si impone una verifica dei fatti.

Le sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono pubbliche, è sufficiente avere il tempo e la voglia di andare a scartabellarle per capire cosa sia andato storto. Non solo nella storia di Charles e della sua famiglia, ma in senso più grande: perché questa vicenda, come tante altre storie di confine, ci mette a nudo in maniera dolorosa, ed al contempo ci suggerisce come migliorare il modo in cui guardiamo al mondo ed il modo in cui decidiamo di farlo funzionare.

2. La diagnosi

Charles Gard è nato, apparentemente sano, il 4 agosto 2016. Solo in seguito sono emersi i primi segni della malattia: il bambino non aumentava in peso e faticava a respirare. È stato ospedalizzato l’11 ottobre 2016 al Great Ormond Street Hospital di Londra con una diagnosi piuttosto nefasta: MDDS, ovvero mitochondrial DNA depletion syndrome con mutazione del gene RR2MB. In sintesi, la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale provoca un malfunzionamento dei mitocondri, organelli deputati alla produzione di energia per le cellule. Ciò causa il deperimento ed infine la morte delle cellule interessate, che nel caso specifico (ovvero, nel caso della mutazione del gene RR2MB) sono quelle dei muscoli (il che include il cuore), del fegato, dei reni e del cervello. A questo disastro si aggiunge la sordità.

I genitori di Charles vanno a fondo. Iniziano a cercare tutto quello che si può sapere e tutto quello che si può tentare per trattare la malattia del bambino. Si tratta di una dinamica che conosco personalmente, che, per quanto in condizioni diverse, meno disperate e più consapevoli, ho visto percorrere dai miei genitori nel 2009, quando io mi sono ammalato di aplasia midollare idiopatica: ogni speranza, anche la più flebile, è meglio di nulla; inoltre è il solo modo di sentirsi oggettivamente utili per evitare di sprofondare in quella sensazione di opprimente impotenza di fronte a qualcosa di così schiacciante ed orribile.

Così entra in scena colui che, nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si chiama semplicemente dottor I. Il dottor I è un professore di neurologia in un grosso ospedale negli USA, e sta tentando una terapia sperimentale per trattare la MMDS causata dalla mutazione del gene TK2. Dice che c’è un trial clinico in corso, che alcuni pazienti stanno avendo benefici dalla somministrazione di nucleosidi come complemento alimentare, allo scopo di sostenere il funzionamento dei mitocondri. Il dottor I ammette che per la mutazione RR2MB non è mai stata fatta una sperimentazione, né su pazienti umani né sui topi. Praticamente è come sparare alla cieca, e la possibilità che la cosa funzioni è remota. Ma per i genitori è meglio sparare alla cieca che star fermi e guardare il figlio spegnersi un po’ alla volta.

Al Great Ormond Street Hospital i medici accettano, ed iniziano ad affrontare tutti i passaggi necessari (incluso il consenso del comitato etico per tentare una terapia sperimentale su un paziente minore e quindi impossibilitato a prestare il proprio consenso) affinché il trattamento sia somministrato lì, senza costringere Charles e la sua famiglia al viaggio negli USA; la discussione del comitato etico è pianificata per il 13 gennaio. Ma a questo punto le cose iniziano ad andare male: il 9 o il 10 gennaio Charles inizia ad avere attacchi epilettici continui, che per via del deterioramento dei muscoli non sono visibili direttamente ma solo attraverso il suo tracciato elettroengefalografico. Gli attacchi durano fino al 27 gennaio. Alla fine di questa fase acuta Charles non dimostra segni di normale attività cerebrale (non risponde agli stimoli, non interagisce, non piange, non mostra segni di ciclo sonno/veglia) e dipende completamente dal respiratore artificiale.

Cosa è successo? Nulla di diverso dal decorso della MDDS: il numero di mitocondri che non funzionano sale e sempre più cellule (ricordiamo: muscolari, cardiache, epatiche, renali e cerebrali) muoiono.

3. L’intervento dei tribunali

Questo è il punto della storia in cui la relazione tra la famiglia Gard ed il Great Ormond Street Hospital cambia di tenore, arrivando ad incrinarsi al punto -necessario ed inaccettabile- di spostare le decisioni riguardanti il destino di Charles dalla sfera privata a quella pubblica, richiedendo l’intervento di un tribunale.

La causa è l’inconciliabile differenza di visione riguardo al da farsi: secondo lo staff dell’ospedale non c’è più nulla da fare, ed anche la terapia del dottor I a questo punto sarebbe un inutile accanimento: l’eventualità che la terapia pensata per trattare la MDDS TK2 funzioni anche per RRM2B è una speculazione teorica, ma c’è dell’altro: se anche funzionasse sulle cellule muscolari, non potrebbe comunque riparare i danni irreversibili occorsi al cervello di Charles.

I genitori, comprensibilmente, non accettano. Non accettano che i medici gettino la spugna e la speranza. Non lo accettano perché pare impossibile che un trattamento disperato ma praticabile nel tempo di un mese venga considerato un trattamento disperato e futile. Non lo accettano perché dal 1800, da quando la medicina ha iniziato a funzionare sul serio, ogni giorno porta nuove scoperte e nuove possibilità: gli antibiotici, l’anestesia, i vaccini, i nuovi sistemi di diagnostica, i trapianti d’organo, avanti fino alla genetica ed alla medicina molecolare. La medicina ci ha raccontato una storia di successi e di miglioramenti, inducendoci a pensare che si possa sempre tentare qualcosa. Ecco perché i genitori di Charles decidono che reagiranno, che se i medici inglesi non vogliono tentare la terapia del dottor I, allora porteranno il bambino negli USA. Inizia una raccolta fondi per coprire le spese: in pochi giorni raccolgono oltre un milione di sterline.

I medici del Great Ormond Street Hospital, uno dei migliori ospedali pediatrici del mondo, non condividono la posizione dei genitori, ritenendo che non sia frutto di un giudizio lucido “in scienza e coscienza” nel miglior interesse di Charles. La letteratura dello scorso secolo racconta centinaia, migliaia di casi di accanimento terapeutico, situazioni in cui pazienti al di là di ogni ragionevole speranza di cura venivano comunque trattati in maniera aggressiva, dimenticando che la morte non è una malattia e non si può curare o posporre all’infinito. Sono storie strazianti, storie che negli ultimi trent’anni i bioeticisti, la classe medica e la società occidentale hanno metabolizzato fino ad arrivare ad una conclusione: superato un certo punto bisogna cambiare attitudine. Quando nessuna terapia offre speranze ragionevoli i pazienti non vanno né abbandonati né tartassati fino a (non sono parole mie, ma non ne trovo di più efficaci) ridurre la loro esistenza ad una inumana parodia della vita. C’è una terza via: quella delle cure palliative, il cui fine non è più quello di trattare la patologia del paziente, ma quello di contenere i suoi sintomi, permettendogli una morte il più possibile indolore e dignitosa.

Nel febbraio 2017 l’ospedale chiede alla High Court di Londra di stabilire che la sospensione della terapia a favore della palliazione sia, oltre che legittima, nel miglior interesse di Charles.

Il tribunale non decide “a sentimento”: nel mese di aprile chiede i pareri dei genitori, di due medici e due infermiere che hanno in cura Charles, del dottor I, dal medico nominato dai genitori, da quattro distinti luminari esperti di pediatria e malattie mitocondriali rare. Viene presa in considerazione anche la posizione dell’equipe di Barcellona a cui i genitori si sono rivolti dopo la rottura delle relazioni con il Great Ormond Street Hospital.

Tutti i pareri medici coincidono: per Charles ogni ulteriore trattamento terapeutico sarebbe futile. L’opinione è condivisa anche dal dottor I, che si esprime come segue:

[giudicare le condizioni di Charles] è molto difficile per me, che essendo al di là dell’Atlantico non l’ho mai visitato ed ho visto solo frammenti di informazioni. Capisco quanto gravi siano le sue condizioni. Il suo elettroencefalogramma è severamente compromesso. Ritengo che sia allo stato terminale della malattia, e comprendo la posizione [del Great Ormond Street Hospital]. Vorrei solamente offrire quello che possiamo offrire. E’ improbabile che funzioni, ma l’alternativa è la morte.

Il tribunale, secondo le norme vigenti, nomina anche un rappresentante legale per Charles. Insomma, è perfettamente logico: Charles è una persona incapace di esprimere la propria volontà, serve quindi una persona neutrale (ricordiamolo: la causa ha Charles al centro e vede i genitori e l’ospedale come parti in lite) che possa rappresentarne gli interessi. Anche il rappresentante legale di Charles, sentiti tutti i pareri, ritiene che il passaggio alla cura palliativa sia la migliore soluzione.

La corte, infine, si esprime:

Essendo il giudice con il triste compito di prendere questa decisione, so che questo è il giorno più buio per i genitori di Charlie, che per lui hanno fatto tutto ciò che era in loro potere. Il mio cuore è con loro, e so che è con loro anche il cuore di ciascuna delle persone che hanno seguito questo tragico caso nel corso degli ultimi tempi. Posso solo sperare che arrivino ad accettare in tempo che la sola soluzione, nel miglior interesse di Charlie, è lasciarlo scivolare via in pace senza costringerlo ad ulteriore dolore e sofferenza.

In altre parole, la sentenza stabilisce che:

  • Le possibilità che la terapia del dottor I migliori le condizioni di Charles sono nulle;
  • Le possibilità che la terapia del dottor I salvi la vita di Charles sono nulle;
  • Nella migliore delle ipotesi sottoporre Charles alla terapia sarebbe inutile e doloroso;
  • Il miglior interesse supposto è evitare sofferenze inutili;
  • I genitori devono accettare l’approccio palliativo, e devono accettare che la morte del figlio è inevitabile.

E’ come chiedere all’acqua di non essere bagnata. I genitori ricorrono in appello alla Supreme Court, che sostanzialmente ribadisce la sentenza, sottolineando che:

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha fermamente stabilito che in ogni decisione giuridica dove sono in gioco i diritti di genitori e figli tutelati dall’Articolo 8 [della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui l’autorità pubblica non ha diritto di intervenire nella vita privata o familiare delle persone, salvo che per questioni di interesse pubblico riguardo a sicurezza, salute, crimine, benessere nazionale, o per la protezione degli interessi di altri], i diritti del figlio debbano godere della massima considerazione. In caso di conflitto, sono i diritti del figlio a dover prevalere.  

I genitori, avendo concluso le possibilità di appello in Inghilterra, decidono di rivolgersi proprio alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sperando in un ribaltarsi del giudizio.

Come i tribunali inglesi, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo assume che:

  • Charles è una persona ed in quanto tale ha degli interessi (o si può supporre che ne abbia);
  • Non necessariamente gli interessi di Charles e dei suoi genitori coincidono.

Ora, cortesemente, dimenticate per un momento quanto letto fino ad ora e rispondete a queste domande. Sapendo di avere una malattia terminale ed incurabile che vi porterà alla morte nel giro di nove mesi al massimo:

  • Permettereste che su di voi fosse tentata una terapia non testata e non sperimentata nemmeno sui topi, che nel migliore dei casi non migliorerà di una virgola le vostre condizioni o la vostra aspettativa di vita?
  • Sosterreste una spesa di un milione e ottocentomila sterline per ottenerla?
  • Permettereste che vi fosse impedito di andarvene nel modo meno peggiore possibile, permettendo ad altri di accanirsi al di là di ogni ragionevole speranza sul vostro corpo, causandovi dolore e sofferenza?

Per quanto mi riguarda, e per quanto riguarda la maggior parte dei pazienti terminali che abbiano partecipato a studi relativi al fine vita ed alla cura palliativa, le risposte sono no, no, no. Ora possiamo tornare a Charles, che volutamente ho sempre citato con il suo nome e non con il vezzeggiativo adottato sistematicamente dalla stampa. Ecco, ora possiamo tornare a Charles, possiamo capire su quali basi i tribunali inglesi abbiano espresso il loro giudizio, sostanzialmente confermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 28 giugno 2017.

4. Considerazioni etiche

Affrontare la questione in maniera analitica permette di comprendere le decisioni dei tribunali e togliersi quella sensazione di “rotto” e di “sbagliato” che esce dalla lettura dei quotidiani. Non solo: un approccio di questo genere, più granulare e meno ideologizzato o sensazionalistico, permette anche di individuare nella storia di Charles alcune questioni generali che non sono proprie solo della sua vicenda, ma ne riguardano tante altre. In sintesi:

  • Giocare a fare Dio;
  • Persona o proprietà;
  • Interesse pubblico in decisioni private;
  • Attitudine positivistica nei confronti della medicina;
  • Morte, vita e significato.

Iniziamo dal primo punto: una delle obiezioni classiche che colpiscono storie come quella di Charles è condensabile nei termini “i medici/i giudici/… dovrebbero smettere di credersi onnipotenti, non possono decidere riguardo alla vita ed alla morte delle persone”. A questo riguardo, dobbiamo pensare alla lettura, oppure alla storia della mela in Genesi. Dal momento in cui impariamo a leggere non possiamo più non leggere: ogni sequenza di caratteri in un alfabeto a noi familiare si tradurrà automaticamente in una parola e, se lo conosciamo, nel significato che essa veicola. Nel momento in cui, nella narrazione biblica, l’uomo conosce il bene ed il male è obbligato a scegliere, ottenendo la possibilità di determinare il proprio comportamento in senso virtuoso, o viceversa. Fuor di metafora, le scienze biomediche ci stanno fornendo sempre più strumenti che permettono di intervenire sulla vita, da sistemi sempre più efficaci per la manipolazione genetica a promettenti linee di ricerca per la rigenerazione di organi o tessuti danneggiati. Si tratta di possibilità a volte ipotetiche, a volte reali; e quando appartengono alla seconda categoria non possiamo fingere che non esistano. Siamo invece chiamati a decidere: se, come, quando, quanto, a che condizioni vadano utilizzate. Non si tratta di “giocare a fare Dio”, ma di affrontare problemi reali, complessi ed evitabili ad una sola condizione: quella di rinunciare alla scienza come strumento per comprendere e manipolare il mondo, ovvero rinunciare ad uno dei tratti più specifici dell’umanità.

La seconda obiezione riguarda invece lo status morale del bambino, o più in generale di esseri umani non fattualmente o legalmente in grado di esprimere una scelta riguardo al loro destino. La riflessione filosofica e bioetica si è più volte espressa in merito, e tali espressioni a volte sono state incorporate nel nostro sistema giuridico. La Convenzione di Oviedo, ad esempio, considera l’autonomia della persona come un bene in sé, prescrivendo che ogni intervento medico (salvo l’eccezione prevista dall’articolo 8) debba essere espressamente e consapevolmente autorizzato. Nel caso di persone non in grado di prestare il proprio consenso, l’intervento dev’essere autorizzato da un legale rappresentante e nel miglior interesse del paziente. Ecco, negli ultimi tempi, complice la questione “obbligo vaccinale“, e la questione “procreazione assistita” una larga fetta dell’opinione pubblica si è convinta del fatto che l’opinione dei genitori rispecchi necessariamente il miglior interesse del figlio e che il figlio sia una sorta di “diritto naturale”, quasi una proprietà di chi lo mette al mondo. Non è così: la letteratura medico/giuridica sono zeppe di testimonianze in senso contrario. Se accettassimo il “diritto naturale” dei genitori sul figlio, dovremmo ritenere giustificabili ed ammissibili pratiche aberranti che vanno dalle frustate (“è figlio mio, so cosa è meglio per lui, quindi lo batto come un tamburo”) alla negazione di pratiche salvavita come le trasfusioni (“siamo testimoni di Geova, riteniamo che Dio proibisca le trasfusioni, meglio un figlio morto che un figlio peccatore”). Se accettassimo questo “diritto naturale” alla “proprietà” o alla totale determinazione del destino della prole, dovremmo farlo sacrificando il valore della vita e della dignità umana ai più scompaginati arbitrii. Ne consegue necessariamente la necessità di poter ipotizzare per via inferenziale e statistica i migliori interessi di persone non legalmente capaci di determinare il proprio destino, e di poterli difendere legalmente anche qualora confliggano con la potestà genitoriale.

E’ opportuno che lo Stato (o chi per esso) intervenga in questioni private? Questo, in succo, è il senso della terza questione. In questo caso la risposta è più complessa, ma in sintesi possiamo dire che se assumiamo che esistano dei valori oggettivamente definiti e moralmente rilevanti (la vita umana, la libertà di espressione, il diritto alla salute, lo stesso diritto all’autodeterminazione) allora è opportuno che esista un potere pubblico deputato a tutelarli, non lasciando nessuno da solo di fronte ad abusi, sperequazioni o limitazioni riguardanti tali valori. L’alternativa? Lo “stato di natura“, la vendetta privata, la fine della società per come la conosciamo.

Il quarto punto: in senso molto generale, gli ultimi duecento anni ci hanno portato a coltivare una solida e positivistica fede nel progresso. “Quello che ieri era impossibile oggi è reale; di conseguenza il domani ci porterà in dono i sogni di oggi”. Non serve aver letto Nietzsche o essere spiritualisti per riconoscere lo strisciante dogmatismo che si nasconde in questa assunzione. molto semplicemente, come scopre sulla propria pelle chiunque abbia a che fare con l’impresa scientifica, il progresso è molto meno veloce e molto meno lineare di quanto suggerisca l’intuito. In altri termini, la filiazione lineare di scoperte e paradigmi è possibile solo come ricostruzione a posteriori che non tiene conto delle centinaia di errori, cantonate, “vicoli ciechi evolutivi” percorsi per un po’ e poi abbandonati, rubando una metafora ai biologi. Non siamo giustificati a credere che quello che oggi è impossibile sarà reale domani: al più siamo giustificati a supporlo, e a provarci.

Infine, dobbiamo imparare ad accettare un fatto. La morte è una componente inevitabile dell’esperienza umana, e se non lo sarà per sempre, lo sarà comunque molto a lungo. Per quanto insopportabile, dolorosa e triste, è qualcosa con cui dobbiamo imparare a fare i conti: non si tratta di una malattia che prima o poi potremo curare. Imparare ad accettare la sua inevitabilità non vuol dire, con Dylan Thomas, “andarsene docili e quieti in quella buona notte“. Significa considerarla come il punto da cui guardare alla vita per riempirla di significato. Significa essere capaci di andare e di lasciar andare, di mettere un punto, per quanto doloroso sia, e di ripartire.