Vissuto due volte


Scriverei, se potessi. Oppure racconterei, ma non sono tanti quelli che sanno ascoltare, e forse non ne vale la pena: del resto la mia storia, sebbene eccezionale, non è affatto unica.

Sono venuto alla luce. Non a tutti succede, anzi, a dire il vero capita a pochi di noi. Noi trascorriamo l’esistenza rintanati nel nostro nido umido e buio, dal primo istante all’ultimo battito. Abbiamo un compito, uno solo, e precisamente lo espletiamo in quattro tempi, giorno dopo giorno, finché non viene la fine. Allora ci fermiamo, e di noi è nulla e oblio.

Un giorno di primavera, tanti anni fa. Sono giovane. Fuori è caldo, lo sento. Lui corre, io lavoro, faccio del mio meglio. Prima piano, poi più forte, più veloce: sono solerte, preciso, costante. Lui si ferma. Chiacchiera con qualcuno, lo sento. Rallento, perché si è fermato. Poi succede qualcosa, un’emozione, credo. Lui è felice, forse più che felice. Devo accelerare un po’. Sento qualcosa: un respiro trattenuto, una sensazione di morbido e di tiepido. Un bacio, direi. Il mio nodo senoatriale ed il mio nodo atrioventricolare impazziscono, come se ci fosse John Bonham in persona a dirigerne il ritmo. Il mio lavoro diventa un assolo di batteria, mentre Lui riprende a correre.

Si vede che era distratto. Chissà, non lo saprò mai. Lui corre, io lavoro, al ritmo dei passi e del residuo d’emozione. Nulla potrebbe andare meglio.

Sento un colpo violento, terribile, inaspettato. Sento il rumore di gomme sull’asfalto e di ossa che si spezzano. Sento che i piedi, i suoi piedi, non toccano terra. Il colpo gliel’ha tolta. La gravità gliela restituisce presto, tutta insieme. Sento altro rumore di ossa rotte. Adrenalina: accelero ancora il ritmo, frenetico, più che posso. Sento sangue che esce, mi sento debole, rallento. John Bonham se n’è andato, riduco il mio ritmo ad un vago rantolare. Lui respira ancora.

Sento urla, vociare, e poi le sirene di un’ambulanza. Sento che Lui viene spostato, ed ogni movimento è un lampo di dolore. Sento un viaggio veloce, poi, al torpido suono del mio ritmo che rallenta e si indebolisce sempre di più, mi sento scivolare nel nulla e nell’oblio.

Una scarica mi investe. Se avessi degli occhi, li sbarrerei come fanno i gatti abbagliati dai fanali delle auto, quando restano paralizzati dalla paura. Mi contraggo completamente, mi spremo, e sento che nulla ed oblio si allontanano. Riprendo a lavorare, anche se sono acciaccato, malandato come un vecchio cane. Per quanto sono rimasto fermo? Non lo so, non posso dirlo, il mio solo tempo è quello scandito dai battiti del mio lavoro.

Il trambusto e gli spostamenti sono finiti. Lui è disteso, fermo, immobile. Passa un giorno, ottantaseimila e quattrocento battiti. Ne passa un altro. Non succede nulla, Lui non si muove, nemmeno un dito. Non sento nulla, nessuna emozione, nemmeno quelle dei sogni. Non era mai successo prima. Poi capisco: Lui non c’è più, non è più una persona, sta diventando una cosa. Il mio lavoro non è più vita, ma solo funzionamento residuale. Sono diventato una cosa anch’io, ma faccio comunque il mio lavoro.

Sento qualcosa. C’è qualcosa, nel sangue che mi attraversa. Qualche farmaco, credo. Mi sento intorpidito, rallentato, e sento che il letto si sposta. Sento voci, voci concitate. Sento il rumore di ossa tagliate proprio sopra di me. Hanno aperto la cassa toracica segando lo sterno in due. Sono quasi nudo. Il pericardio viene tagliato, il mio nido umido e buio. Vengo alla luce. Per la prima volta sento l’aria, assieme al tocco di mani guantate. Dita mi toccano, mi esplorano. Poi qualcosa stringe la mia vena cava. Sento una lama che la incide. Improvvisamente capisco. So cosa aspettarmi.

Ora tocca al tronco venoso brachiocefalico. Poi le vene azygos, l’aorta ascendente, l’arco aortico, le vene polmonari. Ogni arteria, ogni vena, ciascuna delle mie radici in questo corpo viene sigillata e tagliata.  Inizio a sentire un freddo intenso, profondo. Mi sento torpido, ma so cosa succede. Per la prima volta posso abbandonarmi all’inazione, posso fermarmi e riposare senza scivolare per sempre nel nulla e nell’oblio. Sensazione strana, devo ammettere. Le mani guantate tagliano le mie ultime radici, mentre cerco di formulare domande che non riesco più a comprendere. Sono fuori, come un bulbo strappato alla terra.

Un’altra scarica. Devo essermi assopito, quanto tempo è passato, quanti battiti ho saltato? Non lo so, ma stavolta non importa. Sto riprendendo calore, un po’ alla volta. Cerco di raccapezzarmi. Sangue mi attraversa, sento il pizzicare di centinaia e centinaia di punti che uniscono i miei vasi sezionati ad altre radici, che affondano ed irrorano un altro corpo. Tu-tum. Si, questo lo so ancora fare bene. Non sento nulla, i miei nervi sono isolati, quelli non si riattaccano come le vene e le arterie. Sono offline. Beh, dovremo affidarci solo alla comunicazione chimica, io e Lei. Dovremo imparare ad ascoltarci, a fare squadra. Ce la possiamo fare.

Sento che Lei mi parla. Non capisco le parole, ma sento che sono parole dolci. Sono un dono, sono il suo dono. Io stavo morendo, Lei stava morendo. Insieme, viviamo entrambi. Mi chiedo se mi porterà a correre, se le piace, se qualcuno la bacerà, cosa sentirò io. Abbiamo una vita per scoprirlo.

Sono passati venticinque anni, più di un miliardo di battiti. Abbiamo corso, abbiamo amato. Ci siamo detti un sacco di cose, o per lo meno ci abbiamo provato. Abbiamo ascoltato musica, abbiamo viaggiato. Tutto sommato è stata una buona vita, la nostra seconda vita. Lei festeggiava due compleanni: il giorno della sua nascita ed il giorno in cui ci siamo incontrati, in cui abbiamo stipulato il nostro sodalizio. Siamo invecchiati assieme.

Lei se n’è andata di notte. Io non me ne sono accorto subito, perché i miei nervi non sono collegati, perché la nostra comunicazione è sempre stata più complessa. L’ho capito quando ho notato che il sangue arterioso aveva poco ossigeno, troppo poco. Ho accelerato, ho cercato di svegliarla, ma non c’è stato nulla da fare.

Stavolta non ci sono scariche, corse, mani guantate. Siamo alla fine, lo so. Prima o poi arrivano per tutti, il nulla e l’oblio. La mancanza di ossigeno mi sta sfiancando: devo rallentare, non ho forza per continuare a battere. Ancora un colpo, ancora uno. Faccio il mio lavoro, fino alla fine.

Silenzio. Per la seconda volta sento silenzio. Non sento il mio battito, sono fermo, completamente inerte. Sento i miei tessuti che iniziano a morire, il sangue che stagna nei miei atri e nei miei ventricoli. La morte non è un istante, è un processo. Però non mi spiego come mai sia ancora presente a me stesso. Forse dell’attività elettrica residua, forse il mio nodo senoatriale non è solo un pacemaker, forse ho uno spirito anch’io. Perdo la cognizione del tempo, perché nulla lo segna più.

Sento piangere, qualcuno deve averci trovato. Sento rumori, trambusto, spostamenti. Stavolta, però, nulla fa male. Siamo al di là del dolore, ormai. Sento un viaggio, ma non a sirene spiegate. Silenzio, rumori metallici, silenzio. Voci che discutono. Una sega da ossa: non ne sentivo da un quarto di secolo, ma è un rumore che non si dimentica. La sua cassa toracica è aperta, ma stavolta non ci sono sanguinamenti, non ci sono chirurghi trafelati, non ci sono macchine che suonano e persone che corrono. Un’autopsia. Sento altre presenze, in sala, ben più d’una. Un’autopsia didattica. Per ovvie ragioni Lei non poteva donare gli organi, anche se avrebbe voluto. Aveva deciso di donare il suo corpo alla scienza, così da poter essere utile a tanti giovani medici. Meglio macellare i morti che i vivi.

La smontano, pezzo per pezzo. Arriva il mio momento, verrò alla luce per la seconda volta. Il medico fatica ad incidere il pericardio: lo avevamo fatto bello spesso, fibroso, per proteggermi, per tenermi al sicuro. Un po’ alla volta il bisturi vince le resistenze della carne, uno spiraglio alla volta arriva la luce. Non sono bello, non come uno di quei cuori disegnati con il pennarello sulle panchine. Specie io, con le mie cicatrici, le mie suture. Ma sono un cuore forte, o meglio, lo sono stato. Ho vissuto due volte, come Lazzaro.

Sento che gli studenti, i giovani medici, mi guardano con interesse ed attenzione: non capita tutti i giorni di incrociare un cuore vissuto due volte. Sono curiosi, interessati. Poi sento altro. Qualcuno che non sa di medicina, qualcuno la cui emozione è diversa. Non è curioso, non solo. Mi sembra ammirato, commosso. Si interroga su di me, non sul mio funzionamento o sulla tenuta delle mie suture. Si interroga sulla mia storia, sul ritmo che ho tenuto per due persone diverse, su come sia amare con il cuore di un altro. Un cuore tenero.

Magari la mia storia la racconterà lui.