Hestia


Hai vent’anni e una vita davanti. Studi filosofia, sogni il tuo futuro, hai la testa piena di progetti, idee, desideri. Poi, di colpo, tutto si ferma. Il tuo sangue ha deciso di abbandonarti. Lo scopri per caso, un giorno che hai deciso di andare a donarlo. Ma è grazie a questo caso che sei ancora vivo. Debole, ma vivo. Aplasia midollare idiopatica, la chiamano: è una malattia degenerativa del midollo osseo. I medici ti danno dieci anni di vita, a meno di non trovare un donatore compatibile. Una possibilità su 100.000. Disteso sul tuo letto d’ospedale, ogni gesto è difficile, anche solo aprire gli occhi la mattina. Nessuno avrebbe da ridire se ti lasciassi andare. Ma tu cosa fai? Scrivi. Scrivi, fino a farti venire i lividi alle braccia. Scrivi, per far sapere a tutti che il mondo si è rotto. Scrivi, perché hai sempre pensato che i problemi si possono risolvere solo affrontandoli. Scrivi, perché sei disperatamente convinto che se ognuno facesse la sua parte, anche piccola, il mondo si potrebbe aggiustare.
A metà tra il diario e il saggio filosofico – con una scrittura diretta e spesso ironica, ma mai superficiale –, questo secondo libro di Giovanni Spitale è un invito all’azione, un’azione concreta, non velleitaria, che ci ricordi come l’umanità non sarà perduta finché non avremo perduto la nostra umanità.

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La prefazione di Diego Cugia

«Chi sarebbe così insensato da morire senza almeno aver fatto il giro della propria prigione?» La domanda e l’implicita risposta di Marguerite Yourcenar in L’opera al nero nulla tolgono al fatto che ci voglia coraggio a misurare il perimetro della propria infelicità.

Un mio personaggio radiofonico, Jack Folla, un DJ italo-americano rinchiuso nel braccio della morte di un carcere di massima sicurezza, un uomo così virtuale da persuadere molti ascoltatori a crederlo vivente, anche se in attesa di essere giustiziato sulla sedia elettrica, è stata la scintilla che mi ha permesso di conoscere Spit, il protagonista e autore di questo libro, anche se solo virtualmente, via e-mail. Mi raccontò la sua storia, lessi i suoi fogli di diario, ne restai incantato.

Gli autori di romanzi e sceneggiature conoscono un trucco per rendere le proprie fantasie il più avvincenti possibile: porre i loro eroi in una situazione estrema, senza ritorno. Jack Folla aveva le ore contate e più nulla da perdere. L’imminenza della sua esecuzione rendeva “sacra” ogni sua parola. Nessuna censura avrebbe potuto mai infilargli la museruola. Quello che virtualmente avevo osato per mettermi al muro e costringermi a una trasparenza assoluta, per Giovanni Spitale era, ed è ancora, purtroppo, realtà. La vita gli ha riservato l’esatto contrario dei finali buonisti dei best-seller: Spit ha avuto un maledetto colpo di sfortuna. Una malattia degenerativa lo ha costretto fra le quattro mura di un ospedale ed è ancora in attesa del trapianto che potrebbe farlo evadere dalla propria prigione.

In una splendida antologia di racconti dedicati ai suoi viaggi in Giappone, Il giro della prigione, Marguerite Yourcenar  scrive: «Nell’infelicità, per quanto possibile, il coraggio sostituisce il sole». In quanto a coraggio, esistenziale e letterario, Spit è il mio samurai di fiducia. Un guerriero del sole moderno e mai auto-compassionevole. Ha compiuto innumerevoli volte il giro della propria prigione. Queste pagine sono il suo reale diario di bordo. Contengono tutto ciò che fa paura a un lettore di romanzi d’evasione: l’estrema fragilità della condizione umana. Ma per evadere da questa prigione, leggerle è il passaporto.

Ci vuole coraggio da entrambe le parti – spetta al lettore dimostrarlo, ora –, per battersi a duello contro l’infelicità. Come diceva il mio vecchio Jack Folla: «Un uomo che guarda il muro è un uomo solo. Ma due uomini che guardano il muro sono il principio di un’evasione».

Se all’ultimo minuto della sua vita a termine arriverà il donatore con il midollo compatibile che lo salverà, o se malauguratamente il trapianto non sarà possibile, una cosa sin d’ora è certa: Spit è libero.

Diego Cugia