Paura di non esser morti


“Paura di non esser morti” è un paragrafo della mia tesi di laurea magistrale, dedicata alla donazione di organi, tessuti e cellule. Se alcune parti umane possono essere prelevate da donatore vivente in maniera sicura (sangue, cellule staminali emopoietiche, sangue placentare, membrana amniotica)  o tramite interventi chirurgici più o meno rischiosi (rene, emifegato, lobi polmonari, intestino, tessuto muscolo-scheletrico, cute, vasi sanguigni), altre invece non sono prelevabili che da donatori deceduti (cuore, fegato, cornee, valvole cardiache).

Ma cosa vuol dire essere morti? La domanda è densa di implicazioni mediche, scientifiche, filosofiche e legali. Oggi, per nostra fortuna, il decesso è accertato con criteri cardiocircolatori (ECG piatto per 20 minuti consecutivi) o neurologici (assenza di veglia, coscienza, riflessi del tronco encefalico, respirazione spontanea, attività elettrica cerebrale e vascolarizzazione endocranica osservate per 6 ore). Chiaramente non è sempre stato così, e la storia di come la scienza medica sia arrivata a precisare questi eleganti criteri è densa di errori (e di orrori) da film splatter degli anni ’80. Non è una lettura adatta alla buona notte, ma è sicuramente qualcosa di curioso ed interessante.

Per approfondire: Vissuto due volte, un racconto sui trapianti di cuore; Determinazione di morte con standard neurologico, position paper del centro nazionale trapianti; Buried alive, curioso saggio di Jan Bondeson a cui ho ampiamente attinto; D.M. 11 aprile 2008, che ad oggi norma l’accertamento del decesso in Italia.

“Premature Burial”, illustrazione di Harry Clarke per il racconto omonimo di Edgar Allan Poe

Nel corso della storia l’uomo si è continuamente confrontato con il fatto della morte, cercando di determinare quali segni delimitassero il confine tra la vita e la sua cessazione. Si tratta di un fatto speculativo, ma al contempo collegato a forti esigenze pratiche, in primis la possibilità di dare sepoltura al defunto, o comunque provvedere in altro modo allo smaltimento del cadavere. Basta considerare quanto accennato nella seconda sezione a proposito di Harvey e della sua dimostrazione sperimentale del funzionamento del sistema cardiocircolatorio per rendersi conto che fino al 1628 il funzionamento dello stesso era noto poco e male; non serve poi speculare troppo per avere un’idea di quanto aleatorio potesse essere il sistema di accertamento della morte per una scienza medica che non aveva ben chiaro neppure il funzionamento del cuore. A fronte di questa grande incertezza, per determinare quando un paziente fosse passato a miglior vita, negli anni si è tentato di utilizzare i sistemi più disparati: durante la grande peste di Marsiglia del 1720 – 1722, ad esempio, era prassi infilare uno spillo sotto le unghie degli alluci degli appestati per determinare se fossero ancora vivi. Nel 1740 Jacques-Bénigne Winslow, anatomista insigne e docente alla facoltà di Medicina dell’Università di Parigi dal 1728, pubblicò un saggio dedicato al tema, dall’inequivocabile titolo di “Dissertatio an mortis incertae signa minus incerta a Chirurgicis, quab ab aliis experimentis?”, nel quale sosteneva l’inaffidabilità dei sistemi diagnostici a lui contemporanei, con il conseguente rischio di finire ancora vivi nella bara o sul tavolo settorio. Per Winslow, che considerava la putrefazione il solo inequivocabile (ma tardivo) segno del decesso, non erano affidabili né l’assenza di respirazione spontanea né la mancanza di pulsazione arteriosa; suggeriva invece di tenere il paziente in un letto caldo e di tentare una serie di prove sperimentali per accertare l’eventuale decesso:

the individual’s nostrils were to be irritated by introducing “sternutaries, errhines, juices of onion, garlic and horse-radish”. They could also be tickled with the quill of a pen, while some preferred thrusting a sharp, pointed pencil up the corpse’s nose. The gums were to be rubbed with garlic, and the skin stimulated by the liberal application of “whips and nettles”. The intestines could be irritated by the most acrid enemas, the limbs agitated through violent pulling, and the ears shocked “by hideous Shrieks and excessive Noises”. Vinegar poured into the corpse’s mouth “and where they cannot be had, it is customary to pour warm Urine into it, which has been observed to produce happy Effects”.

Il testo di Winslow ebbe vita lunga, soprattutto grazie al taglio sensazionalistico adottato dal primo traduttore, Jean-Jacques Bruhier d’Ablaincourt, che volle allegarvi una raccolta di casi di cronaca (quasi sicuramente inventati) in cui la mancata applicazione delle procedure suggerite avrebbe condotto al seppellimento di persone ancora vive; Bruhier, persuaso dell’opportunità di avviare una massiccia campagna per la revisione delle politiche mortuarie, non è dato sapere se per un’effettiva convinzione scientifica o per la ricerca del successo che non aveva altrimenti raggiunto, riuscì a cavalcare magistralmente l’onda, fino a farsi ricevere da re Luigi XV nel 1745. Il re fu profondamente colpito dalle posizioni di Winslow e di Bruhier, e la ventilata riforma venne indefinitamente posticipata solo in seguito alla considerazione dei suoi costi.

Il dibattito sorto attorno al tema della sepoltura prematura durò a lungo, non senza polemiche. Nel 1752 Antoine Louis, giovane medico chirurgo all’ospedale parigino Salpetriere nonché discepolo del chirurgo ufficiale del re, pubblicò un volume intitolato Lettres sur la certitude des signes de la mort, in cui esaminava ed in buona misura confutava le storie proposte da Bruhies, sostenendo che fosse profondamente sbagliato «to make vulgar people believe extraordinary things without sufficient proof». Louis propose anche una sua interpretazione su quali fossero gli inconfutabili segni della morte: escludeva la putrefazione, in quanto può manifestarsi anche in persone vive sotto forma di gangrena, suggerendo di osservare invece il rigor mortis e le variazioni di pressione del bulbo oculare. Aveva anche sviluppato un suo sistema sperimentale per escludere i falsi positivi che potevano risultare dall’osservazione dei segni clinici: un apparato simile ad una cornamusa per «administer enemas of tobacco smoke to awake the apparently dead».

Nonostante la posizione di Louis non fosse isolata ed altre voci nella comunità medica si levassero a difesa di un più razionale atteggiamento nei confronti del tema, la tesi di Bruhier aveva dalla sua il sensazionalismo e la conseguente forte presa sul popolino, caratteristiche che ancor oggi, in un’epoca di maggior diffusione della cultura e più vasta possibilità di informazione, determinano il successo di posizioni indifendibili, come dimostra il dibattito contemporaneo sulla pericolosità dei vaccini o sulle scie chimiche.

I sistemi di accertamento della morte utilizzati nel XIX secolo non hanno nulla da invidiare, in quanto a stranezza, a quelli suggeriti da Winslow: nel 1805 il dottor August Struwe introdusse un apparato elettrico che prevedeva l’applicazione di una corrente all’occhio ed al labbro del paziente, che, se ancora vivo, avrebbe mosso i muscoli facciali; nel 1837 il professor Pietro Manni, docente di tossicologia alle università di Napoli e Roma, bandì un concorso per ricercare i migliori sistemi per accertare il decesso. Nel corso degli anni vennero proposte idee di ogni genere: sanguisughe poste sull’ano, termometri per misurare la temperatura dello stomaco, pinze per applicare correnti elettriche ai capezzoli, bollitura degli arti, lunghi aghi muniti di una bandierina all’estremità da piantare nel cuore del supposto cadavere.

Questa ridda di sistemi truculenti e dall’apparenza quantomeno sadica è una chiara testimonianza di quanta presa avesse nella cultura dell’epoca la paura di essere sepolti vivi, o più in generale di essere trattati da cadaveri quando invece ancora vivi, come tra l’altro è ben testimoniato dalla letteratura che ha affrontato il tema.

In mezzo a questa serie di bislaccherie, un’idea semplice e sensata, affermatasi e rimasta in uso fino a tempi molto recenti: Eugene Bouchut suggerì di utilizzare lo stetoscopio, recentemente inventato da René Laennec, per diagnosticare la cessazione del battito cardiaco; Bouchut sosteneva che l’assenza dello stesso per un periodo di almeno due minuti sarebbe stata un inequivocabile segno dell’avvenuto decesso10.
Il sistema proposto da Bouchut non era campato in aria, ma poggiava sulle ricerche di Xavier Bichat, grande anatomista francese, che nel 1801, in seguito a numerose prove sperimentali condotte su animali, diede alle stampe il saggio Recherches physiologiques sur la vie et la mort, nel quale sosteneva ed argomentava l’esistenza di un “tripode della vita”: il sistema cardiocircolatorio, il sistema nervoso centrale ed il sistema respiratorio rappresenterebbero la “sede della vita”; la cessazione di una delle tre funzioni comporterebbe la “caduta del tripode” e quindi il decesso.

La paura di non essere effettivamente morti al momento della sepoltura è nel tempo scemata, grazie soprattutto all’evoluzione della diagnostica, alla diffusione della cultura ed alla conseguente progressiva perdita di presa delle storie sensazionalistiche sui sepolti vivi. Il dibattito e le pubblicazioni sul tema risultano decisamente ridotti dall’inizio del XX secolo fino agli anni ’70, epoca in cui l’Harvard Report ne causerà una veloce resurrezione.