Il filo di Arianna


Lei potremmo chiamarla Arianna. Potremmo, eh, perché c’è la privacy, perché divulgare dati sensibili è vietato, perché, in ultima analisi, raccontare storie è anche un fatto di responsabilità: non è affatto scontato che le persone abbiano piacere di diventare parole.

Non conosco Arianna. Arianna per me è un viso in mezzo a tanti: l’ho vista una volta sola, ma di lei non ho memoria; ricordarmi di lei è come pensare ad una foto di gruppo con cento facce e nessuna didascalia.
È stato il 20 novembre 2015, a Nove. Come ogni anno da sette anni a questa parte, anche nel 2015 ho dedicato la quasi totalità dei miei venerdì e dei miei sabati invernali a girare per le scuole superiori raccontando di malattia, di speranza, di midollo osseo. Di come con un dono piccolo, facile, alla portata di quasi ogni essere umano, sia possibile cambiare per sempre due vite. Sì, due: quella di una persona piegata da una malattia del sangue per cui la libera offerta di un po’ di midollo osseo è conditio sine qua non per sopravvivere; quella di chi il midollo osseo invece lo offre. È un dono che si fa in maniera consapevole, da vivi, un dono che non lascia traccia o guadagni su chi lo fa, se non (e direi che non è poco) la consapevolezza di aver fatto la differenza. «Qualcuno non è morto, ho vissuto per due, grazie a me un altro essere umano potrà riprendersi la sua vita ed i suoi sogni, e tutto perché io ho detto di sì». Io che non posso donare, io che aspetto all’altro capo del filo, invidierò per sempre le persone a cui è dato svegliarsi con questa consapevolezza.
Arianna l’ho incontrata così, sotto il segno del dono. Il 20 novembre 2015 ho raccontato una storia a lei ed ai suoi compagni, chiedendo loro di scegliere. Sì, ho chiesto di scegliere, non di diventare donatori: è una decisione che, quando la prendi, ti accompagna per tutta la vita. È intima, importante, una di quelle che ti definiscono come essere umano. Non è qualcosa che si possa imporre o suggerire; si può al massimo proporre, mettere davanti, spiegandone il significato. Poi sta alle persone decidere da che parte stare.

Arianna ha scelto. Per tutta la vita Arianna è stata una ragazza fragile, taciturna, introversa, anche un po’ secchiona. Una sfigata, in pratica, una di quelle persone che si prendono in giro perché non hanno i vestiti giusti, perché ascoltano musica demodé, perché passano più tempo a leggere che alle feste. Ne so qualcosa, credetemi: è la storia di buona parte della mia vita. Io ormai ci ho fatto il callo, ho la scorza dura e non me ne frega più molto, di feste e vestiti. Però ricordo con sofferenza anni di emarginazione, di dolorosa diversità quando tutto ciò che vorresti sarebbe l’accettazione dei tuoi pari; anni di identità faticosamente costruita su rifiuto e bestemmie.

Arianna ha scelto di tipizzarsi, ovvero di sottoporsi all’esame per diventare una potenziale donatrice di midollo osseo. È quasi un giuramento, tipo quello dei guardiani della notte di Game of Thrones, sentinelle silenziose votate ad una vita di servizio, fedeli alla loro missione, pronte ad agire per difendere i regni degli uomini dai mostri e dagli orrori del nord. In dicembre Arianna è andata in ospedale, ha superato la sua paura degli aghi, ha quindi offerto il braccio. L’infermiere ha prelevato qualche campione di sangue, ringraziandola, ed era fatta; ci si mette meno di un minuto, giuro. Il sangue di Arianna è ciò che ha sigillato il voto, l’impegno di esserci per chiunque avrebbe avuto bisogno di lei, e lei, la ragazzina sfigata, non ha avuto alcun timore a versarlo. Chapeau.
Raccontare storie agli studenti mi piace un casino, ma non è il solo modo in cui provo a cambiare il mondo, cercando di mettere una pezza alla carenza di donatori di midollo osseo, di sangue, di organi e di tessuti. Il dono, questo tipo di dono, è una cosa in cui credo fermamente: lo ripeto, si tratta di un piccolo gesto che cambia per sempre due vite, in meglio. Una cosa di questo genere non può dipendere solo dalla capacità di raccontare e dalle energie di pochi testoni portati al sistematico martirio di sé. Ci vuole qualcosa di più, qualcosa di sistematico. Bisogna che chiunque sappia di poter fare la scelta di Arianna: per tutti coloro che aspettano un dono che vale la vita, certo; ma anche per tutelare il diritto di chiunque ad essere una persona migliore, un essere umano che nel riconoscere il valore della vita altrui affermi e riconosca il valore della propria.

Da questa idea e da una cifra di ore di studio dedicate ai sistemi di reperimento donatori utilizzati in giro per il mondo (ore il cui risultato è condensato e compendiato nel mio libro “il dono nelle donazioni”) nasce il progetto “Città del dono”. Sulla carta è semplicissimo, quasi banale: ogni cittadino italiano passa, prima o poi, all’ufficio anagrafe del proprio comune per ottenere la carta di identità. Dal 2013 la legge prevede che all’atto del rilascio del documento sia possibile comunicare la propria scelta in merito alla donazione di organi e tessuti dopo la morte; non tutti i comuni italiani hanno attivato il servizio, ma siamo sulla buona strada. Ma allora, mi sono detto, perché non proporre contestualmente anche la donazione di midollo osseo e la donazione di sangue? Per il cittadino poco cambia, si tratta di mettere tre crocette anziché una sola; per il comune si tratta semplicemente di consegnare le dichiarazioni di volontà alle associazioni competenti, così che possano contattare il nuovo potenziale donatore e procedere a tutte le analisi del caso.

E invece no. No, perché la severissima normativa italiana in materia di privacy prevede che un comune non possa trattare quel genere di dati, neppure con l’esplicito consenso della persona a cui quei dati si riferiscono. In senso generale, nessun ente pubblico può trattare dati sensibili, nemmeno con l’autorizzazione del titolare, a meno che una legge dello Stato non dichiari il rilevante interesse nazionale del trattamento.

Allora cosa si fa? Si passano ore e ore in cerca di una legge, di un articoletto, di un comma, di un codicillo che renda lecita l’applicazione di un sistema che non costa un euro, che salva vite umane, che cambia esistenze. Ma, sorpresa, quella legge non c’è! Allora si chiama Roma, si chiede al Garante della Privacy, si spiega il tutto, chiedendo comunque il permesso di fare il bene. Il Garante però può rispondere ciò che già si sa: se non c’è una legge, non si può fare.

Penso ad Arianna. Dopo la tipizzazione molti donatori restano in attesa a lungo, spesso per sempre: le probabilità che il midollo osseo di due esseri umani presi a caso sia intercompatibile sono molto basse, circa una su centomila. A volte si spera per tutta la vita di essere chiamati a mantenere la promessa di quel dono, ma pochi hanno quella fortuna.

Ma Arianna è speciale. Perché a lei la chiamata arriva, e non solo: arriva pochi mesi dopo l’offerta del braccio, poco dopo quel voto sigillato dal suo sangue. Arianna tiene in mano un filo; all’altro capo c’è Teseo, un bambino di otto anni che la leucemia si sta mangiando giorno per giorno. È uno stillicidio doloroso, intollerabile, perfido. Ogni giorno se ne va qualcosa: i capelli, la voglia di giocare, il sorriso. Ogni giorno è un giorno che ne porta via degli altri, ogni giorno la sua aspettativa di vita cala. È così la malattia: a colpi di forbice si prende la tua pensione, la tua casa, i tuoi figli, il tuo lavoro; si mangia gli amori, l’università, la scuola superiore e le gite di classe; cancella le corse in bici e in monopattino, gli aquiloni e le storie raccontate alla sera, prima di prendere sonno.

E invece no: perché c’è Arianna, la ragazza speciale, quella del filo. Il giorno è già fissato: sarà il 31 marzo che Arianna manterrà la parola data, onorerà il patto, lancerà il suo gomitolo nel labirinto di una piccola vita quasi spezzata, facendo il miracolo. È stato tutto perfetto: la mia storia raccontata, la sua scelta compiuta: tutto è capitato al momento giusto, per Teseo. Se quella mattina non fossi andato alla scuola di Arianna, se fossi stato impegnato a scalare o a smaltire i postumi di una sbronza, se avessi rinunciato per stanchezza o per logoramento, beh, quel filo non ci sarebbe. Nulla e nessuno potrebbe guidare Teseo fuori dal labirinto, nulla e nessuno potrebbe salvarlo dal Minotauro.

Ecco come mai oggi per raccontare una bella storia sono costretto a scrivere la mia rabbia, il mio disappunto, la mia frustrazione: perché ancora una volta, anche in questo, lo Stato ha fallito. Oggi mi sento anarchico come quando avevo sedici anni, e forse ancor di più. Oggi lo Stato ci ha traditi per l’ennesima volta, negando con la vile burocrazia la possibilità di compiere questi miracoli, queste resurrezioni. Se Teseo avesse dovuto aspettare la promulgazione di una legge che dichiari la liceità del dono, beh, sarebbe indubitabilmente morto; Arianna non avrebbe stretto il suo patto, sarebbe ancora solo una ragazzina introversa, ed io avrei una storia in meno da raccontare. Hominum causa omne ius constitutum est, scriveva il giurista latino Ermogeniano. Vuol dire, in soldoni, che le leggi devono servire il bene degli uomini; devono essere strumenti per migliorare la vita delle persone, non trappola, vespaio e legaccio.

Povero Ermogeniano. Povera Italia. Poveri noi.