Il ghiaccio di Shiva


L’arrampicata su misto è soprattutto un suono, un ritmo. Batti la picca, sentila mordere il ghiaccio, batti la seconda, respira. Muovi il primo piede, senti le punte del rampone che raschiano la roccia, muovi il secondo piede, respira. Ripeti. Ripeti ancora. L’arrampicata su misto è il mantra che non ti aspetti: sali una montagna, ma nel mentre la tua testa, accompagnata da quel ritmo ripetuto, si rischiara e si ripulisce.

Questo genere di effetti collaterali ha un nome: “serendipità”. Se lo è inventato Horace Walpole dopo aver letto una fiaba, la storia di tre principi di Serendippo che durante i loro viaggi continuavano a scoprire cose che non stavano cercando. Ecco: tu stai cercando di fare una via di misto e trovi il piacere della meditazione.

Ci sono alcune montagne che catturano l’attenzione più di altre. Lo sa bene chiunque si sia trovato sotto al Cimon della Pala, simbolo delle Pale di San Martino, o a Punta Sorapiss, oppure al Cervino: ciò che le rende impressionanti non è la quota. È l’aspetto. Sono solitarie, isolate e statuarie, lanciate nel cielo, senza nulla attorno.

Lo Shivling appartiene a questa categoria. Già il suo nome è un indizio: “lingam” è la parola che in sanscrito si utilizza per indicare il principio maschile, simboleggiato nel culto da monoliti verticali. Ecco, lo Shilving è il lingam di Shiva proprio perché da Gaumukh, nell’estremo nord dello stato indiano dell’Uttarakhand, sembra una piramide verticalmente protesa in alto.

È il 25 di settembre quando Simon Gietl e Vittorio Messini raggiungono Gaumukh, nell’Himalaya del Gahrwal. Hanno in mente proprio lo Shivling; hanno in mente Shiva’s line, la magnifica via aperta da Thomas Huber ed Ivan Wolf nel 2000. Sono mesi che ne parlano, si documentano, si studiano relazioni e foto. Ne discutono ancora mentre salgono verso Tapovan, a 4300 metri sul livello del mare, campo base per alpinisti e pellegrini diretti alla sorgente del Gange. Ricordano la prima spedizione che raggiunse la vetta, negli anni ‘70, organizzata dalla polizia di frontiera indiana; discutono della salita dalla cresta est, dell’impresa di Hans Kammerlander e Christoph Hainz sul pilastro nord e della loro discesa in condizioni meteorologiche allucinanti.

L’avvicinamento non è semplice: ha nevicato molto, le piste sono quasi impraticabili. Man mano che salgono, Simon e Vittorio si rabbuiano. La neve è decisamente troppa, così come il freddo intenso e pungente, più di quanto dovrebbe essere in questa stagione. La salita sarà molto più dura del previsto. Si avvicinano: quelle pareti imponenti si lasciano vedere meglio, in tutta la loro gelida e magnifica imponenza.

<<Simon, mi sa che qui è un casino>> borbotta Vittorio, abbassando il binocolo. <<Guarda quelle cornici, tutta roba instabile, pronta a venire giù anche solo a sfiorarla>>.

<<Eh, mi sa che hai ragione>> risponde Simon, bello abbacchiato. <<Di lì non si passa, a meno di non essere del tutto suonati, o aspiranti suicidi. Però… Passami il binocolo…>>

Simon non sta guardando la linea che lui e Vittorio hanno progettato di salire. Guarda più a sinistra, dove un’enorme cascata di ghiaccio segna in obliquo la roccia scura.

<<Vittorio, aspetta, guarda bene… A sinistra… Controlla le foto, ti pare che ci sia quella cascata?>>

Vittorio sfodera un fascio di carte, le sfoglia, controlla, scruta. <<Sai che… No, non c’è nulla del genere. Simon, ti sembra solida?>>
Simon ha cambiato espressione. È una cosa di un attimo: l’aria abbattuta è svanita come una nuvola di respiro gelato, lasciando il posto ad uno sguardo curioso, determinato, quasi vorace.

<<Vittorio… Sarà una faticata, ma secondo me è scalabile. Sì, di là si passa. Partiamo a sinistra, saliamo in obliquo, poi traversiamo… Guarda!>>

Vittorio afferra il binocolo dalle mani di Simon. Osserva attento, seguendo le indicazioni del compagno. Metro dopo metro, considerazione dopo considerazione, anche il suo sguardo è cambiato.

<<Pensa, Simon. Siamo partiti per ripetere una via, non lo potremo fare per via della neve, ma potremmo aprirne una nuova. Beh, mi pare un affare non da poco>>. Simon annuisce, fregandosi le mani per il freddo e la soddisfazione.

È il 9 di ottobre quando, dopo giorni di sfacchinamento per portare su il materiale, i due partono per tentare la cima. Partono prestissimo, con il buio. Recitano il loro mantra inaspettato di picche e ramponi per tutto il giorno. Bivaccano a 5500, recuperando un po’ di energie. Il giorno dopo si riparte, prestissimo, avanti. La neve è compatta, il ghiaccio tiene, su fino a seimila metri, fino al pilastro nord di Kammerlander ed Hainz. È il terzo giorno, l’undici, quando finalmente arrivano in vetta, incrociando la via dei Giapponesi.

Shiva’s ice, la nuova via di Simon e Vittorio, non è solo la somma di millecinquecento metri di roccia e ghiaccio con difficoltà fino a WI5 M6. Non è nemmeno un colpo di fortuna, anche se viene da pensarlo. È soprattutto una lezione su come un certo atteggiamento, un certo sguardo aperto ed attento, possa trasformare l’insoddisfazione e la frustrazione di un progetto mancato nella condizione di possibilità per cose nuove e belle.

È mezzogiorno. Seduti sui 6543 dello Shivling, ansimanti e felici sotto un cielo così blu da sembrare quasi nero, Simon e Vittorio pensano che serendipità sembra una parola complicata, ma alla fine vuol dire proprio questo: abbi un sogno, inseguilo, cercalo. Ma non dimenticarti di guardare bene tutto quello che incontri nel percorso: potrebbe valerne la pena.

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Articolo scritto per Salewa Pure Mountain Blog. © Storyteller-Labs. Tutti i diritti sono riservati.