Maschera o maschio: ardenti verità contro freddi stereotipi


Scrive Francesco Piccolo su Repubblica che “non esistono i maschi progressisti”. Scrive che “Quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza; soltanto nei maschi queste due caratteristiche sono legate”. Nientemeno.

Chiedo sommessamente ed anticipatamente venia per il turpiloquio in cui mi toccherà di dover indulgere, ma il pezzo, che raccomando di leggere per intero, è esso stesso un insulto, ed è l’ennesima opinione non richiesta e non necessaria su un caso di cronaca – non richiesta e non necessaria al pari delle boutade di sciacalli tipo Stefano Valdegamberi, secondo il cui illuminato giudizio la responsabilità di quanto accaduto va ricercata nella felpa di Trasher indossata da Elena Cecchettin durante un’intervista (giuro). Con questa premessa, quanto segue non riguarda il caso di cronaca di cui sopra, quanto più in generale la questione di identità di genere.

Parto dal cuore della questione, dalle tre righe più indubitabilmente stupide dell’intero pezzo di Piccolo, che ho citato in apertura:

“quanto più al maschio verranno sottratte arroganza e supremazia, sicurezza e predominio, tanto più si sentirà fragile; e quanto più si sentirà fragile, tanto più combatterà disperatamente. La fragilità ci rende spaventosi, noi maschi; tanto quanto ci rende spaventosi la violenza; soltanto nei maschi queste due caratteristiche sono legate.”

Questa è una volgare generalizzazione basata su uno stereotipo di genere.

Sostenere che ‘tutti gli uomini sono arroganti’, o che ‘tutti gli uomini sono violenti’, o che ‘tutti gli uomini rifuggono la fragilità’ è indubitabilmente idiota, tanto quanto sostenere che ‘tutte le donne sono remissive (e quindi nessuna potrebbe o dovrebbe mai occupare posizioni di potere)’, che ‘una donna non è in grado di difendersi da sola (e pertanto un uomo deve sempre assumersi questa responsabilità)’ che ‘tutte le donne sono fragili (e pertanto strutturalmente incapaci di impegnarsi in qualunque attività che implichi del rischio)’.

Lo ripeto: il cuore dell’argomento di Piccolo è una generalizzazione basata su uno stereotipo di genere, semplicistico, riduttivo e disgustoso quanto ‘il posto di una donna è in cucina’.

Ma com’è possibile sospendere il proprio senso critico fino a non vedere che la risposta di Piccolo a questo problema – e sì, la violenza di genere è un problema – utilizza il problema stesso, solo capovolgendone il segno? Com’è possibile non capire che se la fondazione stessa della violenza di genere sono gli stereotipi di genere, allora ne consegue necessariamente che un altro stereotipo di genere non può essere la soluzione?

Prosegue Piccolo con una incredibile e verbosa tirata (“Non mi piacciono gli uomini che si sottraggono all’accusa di essere violenti…”). Elenca un sacco di cose che non gli piacciono. E ribadisce lo stesso punto: non possono esistere uomini progressisti. Esiste solo “il maschio che non vuole essere ciò che è”, che nel caso migliore è una maschera e pure fragile.

Serve che lo ripeta, che questo è un disgustoso stereotipo di genere? Per amore dell’argomento (che non condivido affatto, ma ci arriviamo poi) assumiamo che esistano sul serio, da qualche parte nell’iperuranio, queste due categorie rigide di uomo-maschio e donna-femmina. Serve sottolineare che io (o chiunque altro) posso essere uomo ed al contempo abbracciare la mia fragilità e non ricorrere alla violenza e sostanzialmente non essere uno stronzo? Allo stesso modo in cui mia moglie può essere donna e determinata e intraprendente e grintosa e sicuramente non qualcuno che ha bisogno di un maschio da guardia? E che questi nostri modi di essere non rendono mia moglie meno donna o me meno uomo?

Perché, alla fine della fiera, di questo stiamo parlando: del fatto che gli stereotipi di genere fanno male a persone di qualunque genere – in quanto tali, in quanto stereotipi. Perché, diamine, siamo persone – ciascuna unica, non generi: è impensabile che ciascun elemento di uno stereotipo, quale che sia, si possa inserire all’interno della nostra psicologia o della nostra visione del mondo.

Proviamo ad invertire i generi nel passaggio in questione, ecco cosa ne esce:

“Non mi piacciono le donne progressiste. Perché sono un’invenzione, o al massimo un involucro; o nei casi migliori uno sforzo continuo prodotto per anni, che poi in qualche modo va sempre a schiantarsi. Esiste la femmina che non vuole essere ciò che è. E questo è il massimo del progresso che possiamo concederci. Poi, sia chiaro, siamo tutti individui uno diverso dall’altro, e in quanto tali possiamo perfino essere progressisti; ma in quanto femmine, no; in quanto femmine, siamo tutte uguali.”

Serve dirlo, che fa schifo?

Conosco persone, di qualunque genere ed a prescindere dal genere, che sono state almeno una volta nella vita, cito di nuovo Piccolo, “quell* che urlava sopra, che non faceva parlare, che doveva parlare prima l**; quell* che spiegava come bisogna comportarsi, o come fare una cosa, o addirittura come bisogna vivere; quell* che ha cercato di imporre il suo ruolo, quell* che si è incazzat* di più perché sapeva di avere torto; quell* che non ha accettato che si amasse un altr* persona (non ha accettato è poco). Quell* che si ricorda che aveva ragione anche due mesi dopo, e chiama, e dice: hai visto che avevo ragione?” Eccetera eccetera eccetera.

Che poi, a dirla tutta, vogliamo una volta per tutte ammettere che un discorso così strutturato, oltre ad essere intrinsecamente stupido, poggia anche su premesse fondamentalmente errate in quanto ottusamente e rigidamente eteronormative? Davvero non lo abbiamo ancora capito che l’identità di genere è un tantino più complessa di ‘uomo-maschio’ e ‘donna-femmina’? Come rientrano in questo discorso i miei amici queer, intersessuali, transessuali? Per esempio, Marta (nome di fantasia, persona reale): che è nata con cromosomi maschili, ma ha una variante genetica che la rende insensibile agli ormoni maschili, che alla nascita aveva genitali ‘ambigui’ (è così che dice la medicina, che è ancora in massima parte eteronormativa) ed è stata operata da neonata per nessuna specifica ragione medica, se non per poterla più facilmente assegnare ad una di quelle due categorie, ‘uomo-maschio’ o ‘donna-femmina’ che in quanto binarie e familiari ci fanno tanto sentire a nostro agio. Marta ha scoperto solo a 14 anni la sua storia medica di persona intersessuale[1], perché nessuno ha mai pensato di dirglielo, perché era complicato, per paura di farle del male (quindi certo, meglio mentirle su uno dei fondamenti stessi della sua identità, vero?).

Allora, cos’è Marta, un ‘uomo-maschio’ o ‘donna-femmina’? è una stronza aggressiva, violenta e spaventosa, o è una creatura remissiva e inetta e destinata al focolare? Cosa conta di più, il suo corredo genetico o la scelta che l’equipe medica ha fatto per lei – decisione su cui lei non ha avuto uno straccio di voce in capitolo, e che ha determinato la sua identità dagli 0 ai 14 anni?

O forse, dico forse, non potremmo considerare che quello che conta è la scelta che Marta ha iniziato a fare a 14 anni (oggi ne ha 30) e continua a fare ogni giorno, scelta che non rientra in nessuno di quei due contenitori, ‘uomo-maschio’ o ‘donna-femmina’?

E se per Marta è così (e deve essere così, perché ogni altra alternativa è orribilmente ed ugualmente immorale), perché non dovrebbe poter essere così per me, per mia moglie, per Francesco Piccolo, per chiunque altro? Perché non dovremmo poter decidere di non essere affatto inclini ad “arroganza e supremazia, sicurezza e predominio”? Perché non dovremmo poter abbracciare la nostra fragilità senza voler combattere disperatamente – e violentemente?

Su due cose ha ragione – probabilmente senza saperlo – il buon Francesco Piccolo.

La prima: che tanti, tanti uomini si sono rotti le palle. Ma non di quello che pensa lui. Ci siamo rotti le palle di vederci imposto uno stereotipo di genere assurdo (uomo-maschio-violento-arrogante-…), assurdo al pari dell’altro (donna-fragile-remissiva-indifesa-…). Ci siamo rotti le palle di dover rivendicare il diritto a non dover aderire ad alcuno stereotipo di genere. Ci siamo rotti le palle di non poter definire le nostre persone senza dover ricorrere a categorie che per loro stessa natura snaturano la realtà in una semplificazione irreale e grottesca.

La seconda: “Non basta cambiare le regole da un giorno all’altro e mettere quelle giuste; e credere che si seguano soltanto perché sono giuste”. Primo, perché non stiamo parlando di regole, ma di come ci aspettiamo che le persone costruiscano le loro identità; secondo, perché se le premesse per questo cambiamento sono così vergognosamente ottuse, binarie, e cripto-conservatrici, beh, allora, tanti auguri.


[1] Intersessualità è un termine ombrello usato per descrivere quelle persone che hanno caratteri sessuali primari e/o secondari non definibili come esclusivamente maschili o femminili. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, le persone intersessuali hanno un corpo che “non corrisponde alla definizione tipica dei corpi maschili o femminili”. Circa l’1,7% della popolazione umana è intersessuale.