Resilienza


Immagina di avere un sogno. Uno grande, importante, bellissimo. Immagina di lavorare sodo per rincorrerlo, senza schivare la fatica. Ecco, prendi questa sensazione e tienila bene in mente per un momento.

Non è ancora notte, ma tra nuvole e pioggia nei boschi a sud di Salisburgo è praticamente già buio. Aaron cammina ancora, a passo deciso ma non come 80 km fa. Lo zaino con il parapendio è leggero, ma dopo dieci ore a piedi il peso si fa sentire lo stesso.

<Maledetto tempo>> pensa, borbottando tra se e se. <<Maledetta pioggia e maledetta sfortuna>>. Un tuono lontano rimbomba, il bagliore nel cielo disegna per un momento il profilo piramidale dell’Hochalmspitze, affascinante e terribile come una Gorgone.

Mancano ancora pochi chilometri, poi Aaron potrà riposarsi un po’.

Sarebbe stata tutta un’altra cosa, volando. Sarebbe stato leggero e perfetto, avrebbe veleggiato agevolmente dal decollo all’arrivo, sorvolando le Alpi salisburghesi sulle quali adesso si trova ad arrancare. Non che il volo, questo genere di volo, sia una faccenda di tutto riposo, anzi. Sono valli strane, l’aria forma correnti complicate da prevedere, le termiche non durano mai quanto vorresti, oppure sono troppo forti. Se non hai una sensibilità da sciamano, beh, voli come una foglia nel vento di ottobre. No, non è una faccenda di tutto riposo, ma questa è un’altra storia: 80 km sotto la pioggia battente sono tanti.

<<Ecco, ci si mette anche il ginocchio, come se non bastasse>>. Aaron stringe i denti, cercando di ignorare il dolore sordo ed ostinato che ha iniziato a masticargli l’articolazione. Il menisco, probabilmente.

Eppure gli auspici erano buoni, anzi, ottimi: una grande stagione, in ottima forma, poi la vittoria della superfinale della supercoppa di parapendio; per concludere, la prestazione incredibile al Letherman Prologue, la salita e discesa dallo Zwölferhorn che quest’anno ha preceduto l’X-Alps. Ha tagliato il traguardo per primo, Aaron, alla pari con Sebastian Huber. Hanno passato il traguardo tenendosi per mano, un’ora e cinquantatrè minuti dopo la partenza, una di quelle scene che danno significato alla parola “sport”.

Chissà dov’è, adesso, Huber. Chissà quanta pioggia ha preso.

Questa è la Redbull X-Alps, una delle gare di parapendio cross country più dure al mondo: da Salisburgo al Principato di Monaco, mille chilometri in linea d’aria attraverso tutto l’arco alpino. Unici mezzi accettati, le gambe e il parapendio. È una gara mitica, una di quelle che già arrivare alla fine è un risultato. Aaron l’ha già ottenuto: nel 2013 era settimo, nel 2015 sesto. Quest’anno, beh, il sogno è vincere. Mentre continua ad infilare ostinatamente un passo dietro all’altro, nonostante il male, Aaron pensa a quanto ha faticato per arrivare qui. Allenamenti di corsa, voli, ore ed ore e litri di sudore spesi per essere pronto, per aver tutte le carte in regola, per mirare al podio.
Il ginocchio peggiora, come il tempo e l’umore: è difficile rimanere sereni, quando tutto va male.

Il secondo giorno di gara le cose sembrano andare un po’ meglio: si riesce a volare, finalmente. Aaron decolla zoppicando, atterra, stringe i denti, cammina per cinque ore, decolla, atterra. Gli impatti degli atterraggi non fanno bene al ginocchio scalcagnato, e camminare diventa un’agonia, soprattutto in salita.

Lasciare, arrendersi? No, Aaron non ci vuole nemmeno pensare. Ha un sogno grande, importante, bellissimo. Non vuole farselo scappare. Ne discute con il suo team: tutti quanti, dal tattico al fisioterapista, gli consigliano di ritirarsi, gli dicono che ha combattuto come un leone, ma che adesso è meglio così. Ad Aaron vien quasi da piangere, e non solo per il dolore.

Ma stringe ancora i denti, attinge all’ultima riserva di energie, quella che non sai di avere finché non ne hai bisogno, finché non arrivi al limite. Non si ritira. È il terzo giorno, ed è ancora in gara. Macina ancora diciassette chilometri a piedi e quasi trecento in volo, ma il ginocchio purtroppo non migliora, nonostante le cure ricevute. Cinque luglio, quarto giorno di gara: 174 chilometri in volo, troppo pochi; tocca farne una quarantina a piedi. Troppi, in quelle condizioni. È la fine. Aaron, sfinito dalla stanchezza e dal dolore, lascia la gara.
Immagina che non hai più un sogno. Immagina che tutto il lavoro, la fatica, l’impegno ed i sacrifici che hai fatto per inseguirlo non siano serviti a nulla. Non diventano, come avevi immaginato, una calda sensazione di successo, di avercela fatta. Diventano una doccia fredda di delusione.

Viene facile, fermarsi. Viene facile mandare tutto a quel paese, e fine.

Ma immagina di avere una qualità rara. Gli psicologi la chiamano “resilienza”. Vuol dire che sei un po’ come una pallina rimbalzante: la botta che prendi sbattendo per terra, beh, non ti fa andare in pezzi. “Resilienza” vuol dire che quella botta sei capace di trasformarla in nuova energia per tornare in alto. Non ce l’hanno in tanti, ma Aaron sì.

I mesi dell’estate trascorrono tra fisioterapia e nuovi allenamenti, per rimettersi in forma. Prima piano, poi sempre di più, aumentando intensità e durata. Aaron si sta rimettendo, il suo ginocchio funziona di nuovo, e l’otto settembre a Lienz c’è Red Bull Dolomiten Mann. È una gara tosta, una staffetta in team: corsa in montagna, parapendio, mountain bike, kayak. <<Perché no?>>, si dice Aaron.

La parte di parapendio è impegnativa. Quando arriva il runner della tua squadra, passandoti il testimone, puoi partire, di corsa anche tu. Si scende veloci giù dalla cima del Kühbodentörl, fino al decollo. Bisogna volare rapidi, ma anche precisi, molto precisi. C’è un atterraggio intermedio, un altro tratto di corsa, poi un secondo volo, giù fino allo stadio di Lienz. Lì il testimone passa di nuovo.

Aaron non pensa alla resilienza, quando parte. Non ci pensa quando decolla e nemmeno quando scende rapido come un falco in picchiata sui versanti del Kühbodentörl, sfiorando le cime dei pini. Pensa che, tutto sommato, la vita è bella proprio perché è difficile. Pensa che non sono i risultati a darti soddisfazione, ma la strada che hai fatto per raggiungerli. Pensa che poche cose gli fanno battere il cuore come la sensazione dell’aria in faccia. Vola benissimo, come se i movimenti dell’aria per lui fossero chiari, visibili. Atterra, corre, passa il testimone.

La gara continuerà ancora, snodandosi tra sentieri e torrenti. Ma lui, Aaron Durogati, lui ha già vinto. Perché non si è fatto fermare, certo. Ma anche perché il suo è il miglior tempo della Dolomiten Mann. Podio. Primo posto.

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Articolo scritto per Salewa Pure Mountain Blog. © Storyteller-Labs. Tutti i diritti sono riservati.